Aridita’

Diego Arbore Street Photographer | street photographer | fotografi street famosi | street photography tecnica Aridita’

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Dune di sabbia, eroiche acacie e flemmatici dromedari passano sulla strada lunga e dritta che taglia a metà il paesaggio arido. Brahim sterza prepotentemente il volante alzando un gran polverone e abbandona l’asfalto rumoroso per proseguire sul dolce scivolare delle ruote, come sul velluto. Tira il freno a mano urlando come un cowboy al rodeo e quando la vista si dirada apre la portiera sedendosi sul cofano della Jeep, poi accende una sigaretta lottando con la fiamma mossa dal vento. Le dita gialle di chi ha deciso di alleviare le sue pene con un pò di nicotina, si muovono con un gesto così abitudinario da renderlo già noioso ai miei occhi estranei. La sabbia scivola furiosa fondendo terra e aria in un etereo mondo beige da film di fantascienza, uno di quei pianeti dove il sole è distante e la missione è trovare nuova vita. Brahim appoggia il piede sulla ruota del fuoristrada e aspira con forza la paglietta illuminando la brace. I suoi occhi ruotano in alto cercando malinconicamente un orizzonte celato dalla sabbia.
“Siamo sopra l’ex lago Iriki, qui un tempo c’era solo acqua. Quest’area umida si estendeva per 32 chilometri rendendo fertile il terreno e il clima mite ma tra poco conoscerai la storia direttamente  da chi vive qui”

Ciò che era affascinante fino a qualche istante prima, appariva adesso un luogo arido e inospitale, una fredda distesa lugubre e spoglia, dove neanche la più elementare forma di vita sembra appartenerle.

Brahim spegne per terra la sigaretta e alza l’indice : “Poco più avanti ci sono i resti del “Titanic hotel”, oggi assomiglia ad una nave arenata sulla spiaggia, nessun nome sarebbe stato più appropriato.”

Insieme alla sigaretta si spegne anche la nostra conversazione, così restiamo in silenzio a vagare con i pensieri. Al di là di ciò che era visibile il vento creava ululati e lamenti difficili da identificare per i miei occhi persi nelle pareidolie più fantasiose. Il battito del mio cuore accelera quando capisco di non essere di fronte a un miraggio ma riconosco la figura di un essere umano muoversi sgraziatamente nella nostra direzione. Era una millefoglie di veli colorati tenuti insieme da fili di pelle improvvisati che sembrava dovessero prendere il volo in ogni stante. Al suo interno una donna anziana cercava di comunicare qualcosa agitando un bastone e con la mano sulla bocca creava un megafono. Era seguita da una pecora, fedele come un cagnolino domestico e quattro bambini spersi nella foschia del vento desertico. Brahim si fruga nelle tasche e tira fuori qualche diram, intanto la vecchia si era fatta ormai davanti a noi. Aveva il viso scurito dal sole e quelle rughe profonde la facevano assomigliare a un vecchio lupo di mare.

Sul palmo della mano aperto, secco come un campo di grano d’estate, stava adagiata la banconota con il braccio teso, come se quella non bastasse. La accontentiamo e con una gestualità universale ci fa segno di seguirla. “Da qui si prosegue a piedi.”

Prima di partire Brahim mi indica la testa e come ogni giorno si consuma il rito propiziatorio del turbante, così chino il capo lasciandomi avvolgere dalla kefiah viola che mi accompagna nel deserto.

I bambini mi girano intorno incuriositi come i cuccioli di un animale selvatico, scalzi e incuranti del sole e di quel vento che alza cumuli di sabbia e pietrisco. La pecora intanto ci segue mentre dal nulla è spuntato anche un bastardino sporco e magro ma dall’indole pacifica. Senza punti di riferimento è difficile capire la direzione nella quale siamo diretti, non un albero, non una pianta, non una roccia e nemmeno il cielo, solo foschia.

Ormai disorientato osservo Brahim che sorride e con un cenno del viso mi indica di guardare meglio in avanti. "Quelle che si intravedono sono le capanne di questa famiglia nomade, si sono stanziati qui una decina di anni fa.”

Un pugno di costruzioni di legno alte poco più di un metro e mezzo e distanti tra loro quanto basta per un pò di privacy sono apparse come funghi dalla sabbia. Attorno a queste abitazioni, tre poveri asini stanno immobili come alberi al sole, legati con una corda corta a sufficienza per arrivare alla ciotola d’acqua.

Una giovane silhouette esce dalla capanna più grande e si avvicina a noi con piglio deciso. Un turbante giallo gli svolazza sulla testa, è Ahmed, il capo villaggio. Si scopre il viso quel tanto che basta per vedere i suoi occhi neri malinconici ma che donano tenerezza al sorriso scurito dalla polvere. Con un gesto delle braccia mi accoglie e ci invita a proseguire con la movenza di un maître e l’eleganza innata nascosta sotto la tunica. Passiamo attraverso le capanne costruite con rami, pietre e paglia che sembrano instabili a prima vista ma in realtà sono solide e ben costruite. Seduto all’ombra di una di queste, un ragazzo intreccia dei fili di canapa mentre un fumo denso esce dalla finestrella sopra di lui, al suo interno una donna sta cucinando delle verdure dentro un pentolone. Si nasconde dietro al velo alla vista della mia testa lanciandomi inequivocabili segnali di non voler essere disturbata. Ahmed si ferma davanti alla capanna più grande, quella con la veranda e cortesemente mi invita a entrare. Ci sediamo per terra sulla tavola apparecchiata adagiata sopra un tappeto e ci viene servito il rituale del the alla menta. Ahmed versando dall’alto la bevanda calda nei piccoli bicchieri di vetro si apre. "Questo habitat naturale è stato ricchissimo fino agli anni 70, le nostre famiglie vivevano di pesca e allevamento, ora ci sono solo sabbia e pietre. Quando decisero di costruire la diga di Ouarzazate il lago venne prosciugato con lo scopo di alimentare la rete idrica.

I vecchi ricordano enormi mucchi di pesci ritrovati sul fondo seccato, la terra sembrava pelle di serpente.” Sorride sempre mentre racconta, ma nelle sue espressioni leggo la malinconia di un luogo diventato leggenda. “Un tempo vivevano diverse tribù in quest’area, oggi siamo rimasti solo noi. Campiamo grazie all’allevamento di qualche dromedario e alla creazione di manufatti artigianali da vendere ai turisti. Ci sposteremo a breve perché abbiamo esaurito tempo e risorse in questa zona.” Esco dalla capanna per fotografare i dintorni, il vento ha smesso soffiare, scostando  quella tenda di sabbia che copriva il cielo e svelando uno scenario tutto nuovo. Finalmente posso vedere l’orizzonte che si estende all’infinito privo di vita.

“Questo terreno un giorno sarà povero e addomesticato, e nessun albero potrà più crescervi”.

Questa frase che avevo sottolineato tanti anni fa nel “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche ha aspettato il momento perfetto per essere ricordata. Con la coda dell’occhio vedo la donna uscire dalla cucina con un ragazzino, trafelata si avvicina alla tanica dell’acqua, versa il prezioso liquido in una tazza di terracotta e con il velo dello chador copre la parte alta del bicchiere creando un filtro per dissetarlo. Poi con lo sguardo di un animale impaurito sparisce dentro la piccola cucina lasciando il ragazzino preda del nulla. Siamo uno di fronte all’altro, come una sfida di un film western, ci guardiamo in attesa della mossa dell’altro. Sorrido e mi avvicino con calma. Ha gli occhi grandi e malinconici, si copre la parte bassa della bocca mordendosi il collo della t-shirt per nascondere un põ di timidezza.

Una poderosa mano mi si posa sulla spalla spezzando la tensione degli sguardi, riconosco l’inconfondibile odore di nicotina di Brahim.

"Al tramonto ci rimettiamo in viaggio". Poi accarezza la testa del bambino, gli dice qualcosa in lingua berbera e ridono insieme. Totalmente estraneo alla loro conversazione scatto qualche fotografia interrogandomi sull’ infanzia nel deserto. "Questo ragazzino va alla scuola nomade a piedi ogni mattina, saranno almeno dieci chilometri, nei primi anni si perdono in molti. Escono molto presto per per evitare le ore più calde. Si cerca di tenerli impegnati il più possibile. almeno fino al tramonto quando escono per giocare a pallone per la strada.”

Qualcosa attira l’attenzione del ragazzino che saluta velocemente e schizza via sparendo tra le capanne. Brahim lo segue con la mano in modo scherzoso e mi indica due dromedari sellati seduti per terra. "Dobbiamo essere a Ouarzazate prima che venga buio, adesso andiamo, Ahmed ci accompagnerà alla Jeep." Seduto sul povero animale abbandono il villaggio dall’alto della sua schiena. I bambini escono come insetti mentre mi lascio alle spalle questo paesaggio sterile, mi salutano come se fossi un personaggio famoso cercando di avvicinarsi per battermi un cinque. Una volta dispersi attraversiamo l’area desertificata fino alla jeep, ormai mimetizzata dalla sabbia. Scendo dal dromedario con le gambe intorpidite e tremolanti, abbraccio Ahmed e lo saluto augurandomi di rivederlo in futuro, ma l’onestà del suo sorriso ingiallito mi fa intendere il contrario.

“ Siamo nomadi, il giorno che tornerai saremo già andati via, buon fortuna!”